2012/03/15

10.03 Cui prodest ?

Come già premesso, siamo sempre in tempo a lustrarcene gli zebedei… ma quali sono le ‘chiavi’ per destare in noi il sacro fuoco dell’interesse ? Se uno non ha coraggio, non è che se lo può dare, diceva Don Abbondio (e circa 42.000 occorrenze sul motore di ricerca rappresentano una certa conferma). Per noi invece si tratta degli eterni motori della vita: Curiosità e Passione ! Curiosità e Passione che intendiamo investire cercando di comprendere ogni giorno un po’ di più su quanto ci sta attorno, e soprattutto su chi ci sta attorno, partendo però prima di ogni altra cosa da una maggiore comprensione di noi stessi e dei meccanismi razionali o irrazionali che guidano le nostre scelte. Come detto, con un atteggiamento di sano, egoistico interesse. Senza farci truffare dai significati abituali delle parole che adoperiamo. Siamo o no interessati a noi stessi ? Capire noi stessi significa nel contempo aprirsi alla comprensione degli altri. Vediamo scorrere le nostre vite sempre più in un contesto ‘situazionale’ dettato da criteri di immediata utilità, di riscontro “qui e adesso” . Non saremo certo noi –con strumenti intellettuali ‘finiti’- ad avere la presunzione di modificare tale situazione: conviene però imparare a conviverci un po’ meglio, magari provando nel frattempo a costruire -un passettino alla volta- uno stato di consapevolezza più elevata su quanto ci succede intorno, su come e quanto tutto questo produca degli effetti dentro di noi, e su cosa possiamo fare per cambiarlo (o perlomeno per modificarne la traiettoria), se la piega che hanno preso le cose non ci soddisfa. Sicuramente gioca un ruolo importante il fatto di confrontarsi quotidianamente con una serie di situazioni che in famiglia, nel sociale, in azienda sono spesso nascoste, sotterranee, ma di cui comunque si ha sensibilità, se ne percepisce la presenza e la profonda importanza. La consapevolezza dell’esistenza di un ‘non detto’ nelle nostre relazioni è già un bel risultato, e dovrebbe essere continuamente monitorato perché strutturale nell’esercizio di qualsiasi attività, in particolare agli inizi di un percorso professionale. Un edificio sta in piedi nel corso dei secoli anche perché –nella sua struttura- sono state studiate con cura certosina -e poi costruite correttamente- le fondamenta: sono invisibili ma tutti sanno che esistono e che tengono in piedi l’intero ambaradan. Forse dovrebbe essere così anche se consideriamo la nostra personalità: un edificio in perenne costruzione, con delle fondamenta invisibili che però sorreggono tutta la struttura. Invece la tendenza è di spostare la dinamica delle relazioni sociali e professionali verso un incontro sempre più utilitaristico, freddo e slegato. Dove chiunque, all’estremo del ragionamento, possa essere in grado di sostituire chiunque altro, senza alcun riguardo per l’edificio di relazioni umane che sta alla base di qualsiasi rapporto. ‘Ghe vòl ‘massa fadìga, ‘massa tempo (troppo impegnativo insomma). Contatti sempre più epidermici, fondati su relazioni deboli o superficiali, con l’unica certezza di dissolversi alla prima manifestazione di un problema più serio. Il lavoro di squadra e tutte le altre belle quanto teoriche pensate che ci vengono proposte quali esempio di eccellenza organizzativa, quando però sono calate dai sacri testi nella realtà di organizzazioni che soffrono, cioè quando siamo nella cacca ovvero quasi sempre e/o quando ne abbiamo più necessità, sono sempre le prime ad essere poste sotto osservazione, le prime a traballare nei giudizi dei singoli e quasi sempre le prime ad andare in frantumi, perché l’unica cosa che conta in quei (questi) momenti ritorna ad essere quella basica per tutti ovvero:
1) per le organizzazioni, come minimo far rientrare le spese sotto i ricavi per garantirsi la sopravvivenza; e
2) per i singoli, si salvi chi può (magari diventando maestri nell’arte di schivare gli schizzi della sostanza organica di cui sopra…).
Partendo dalla soggettiva percezione della realtà e dalla sensibilità con cui la interpretiamo, tutti noi abbiamo costruito più o meno consapevolmente il nostro castello intellettuale, ed è proprio quella costruzione e quel metodo che ancora oggi ci guida nelle nostre scelte. Il rischio, reale e diffuso, è quello di sopravvalutare la nostra visione della realtà e di sovrapporla non solo a quelle altrui ma anche alla realtà vera e propria, senza rendersene conto. In automatico. E creando così nuovi equivoci, nuove distorsioni. E’ dimostrato che ci muoviamo psichicamente dentro a un nostro mondo che ci ripetiamo continuamente essere razionale, logico e determinato, ma che in realtà è parecchio incasinato, confusionario e spesso sbarrato da una serie di confini che noi stessi ci siamo costruiti intorno. E, soprattutto, solo nostro. Barriere la cui presenza resta spesso invisibile, e allo stesso tempo assolutamente presente (a volte preponderante) nell’esercizio delle nostre opinioni. Confini la cui esistenza dobbiamo imparare a conoscere e comprendere, innanzitutto per ridurre l’opacità che alberga nelle nostre relazioni interpersonali, ma anche -e forse soprattutto- per contribuire ad allargare i nostri spazi mentali, renderli maggiormente disponibili all’accoglienza ed alla comprensione, per conoscere meglio noi stessi e gli altri. Per costruire ai nostri figli un minimo di ammortizzatori psicologici per quando toccherà a loro confrontarsi con la precarietà insita in ogni possibile visione di quella cosa che –per capirci- chiamiamo ‘realtà’, come se fosse un qualcosa di univoco e universalmente condiviso. ©emmi (segue)

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